Violenza maschile contro le donne in Italia

A cura di Giulia Poletti e Michela Risi

Resistenza Femminista ha partecipato all’invito della Special Rapporteur Reem Alsalem a contribuire al report sulla violenza maschile sulle donne

Secondo i dati ISTAT e del Ministero della Salute, la violenza contro le donne e le ragazze assume diverse forme, con conseguenze significative sulla loro vita e sul tessuto sociale.

 

Le forme più rilevanti di violenza basata sul sesso sono: 

  • Violenza fisica e sessuale: il 31,5% delle donne ha subìto violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Le forme più gravi sono spesso esercitate da partner o ex partner; gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner.
  • Molestie sessuali: le forme più diffuse includono molestie fisiche, come essere toccate, abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), stupri (3%) e tentati stupri (3,5%).

  • Stalking: Il 19,9% delle donne straniere subisce stalking da un ex partner, contro il 14,8% delle italiane

  • Violenza psicologica: stando a quanto riportato dalla rete DIRE, la forma più frequente di violenza subita dalle donne che si sono rivolte ai loro centri antiviolenza è psicologica (82,2%), segue quella fisica (56,5%).

  • Violenza economica: tra le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza della rete DIRE, 1 donna su 3 subisce violenza economica, la violenza sessuale e fisica risulta essere meno frequente (16,9% e 16,3% rispettivamente).



Fig. 1 Tipi di violenza (REPORT DIRE)

 


Oltre ad essere la forma di violenza più frequente, quella psicologica risulta essere anche in aumento (80,4% nel 2022 e 77,9% nel 2021). La violenza fisica, invece, non ha un andamento costante (58,5% nel 2022, 57,6% nel 2021).

 

Tra le forme emergenti di violenza troviamo anche la violenza online, con l’aumento dell’uso dei social media, le donne sono sempre più soggette a cyberbullismo, molestie online e diffusione non consensuale di immagini intime.

Il rapporto della Polizia Criminale sui primi sei mesi del 2024 rileva un incremento delle casistiche di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Questo fenomeno di revenge porn è strettamente correlato alla violenza di genere, e presenta una crescita allarmante, sottolineando l’urgenza di potenziare le azioni di contrasto. Tra il 2020 e il 2023, la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ha mostrato un andamento oscillante: dopo una flessione nel 2022, nel 2023 si è osservato un aumento del 12% dei casi.

 

Tra i vari fenomeni di violenza online è da menzionare il recente fenomeno del “Calippo Tour” che in Italia ha suscitato dibattito e preoccupazione. Si tratta di un’iniziativa in cui giovani influencer viaggiano per il paese offrendo incontri sessuali gratuiti in cambio di visibilità e follower sui social media, in particolare su piattaforme come OnlyFans. Questo trend ha sollevato interrogativi sullo sfruttamento e sulla sicurezza delle donne coinvolte. 

Parallelamente, sono emerse preoccupazioni riguardo allo sfruttamento su OnlyFans. Un’inchiesta ha rivelato casi in cui donne sono state abusate e costrette a produrre contenuti per guadagnare denaro, con violenze sia sessuali che psicologiche. 

 

Altra forma di violenza in aumento è quella economica, che viene esercitata tramite il controllo finanziario e la limitazione dell’accesso alle risorse economiche da parte dei partner.

La metà circa delle donne che si rivolgono a un centro antiviolenza D.i.Re (46,5% vs 47,3% nel 2022) ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni. Il 30% di queste, tra disoccupate, casalinghe e studentesse, non ha un lavoro ed è a reddito zero, fattore che rende vulnerabili alla violenza economica. Meno della metà (41,1% tra occupate e pensionate) può contare su un reddito sicuro.

Sono le donne tra i 30 e i 39 anni ad aver subito maggiormente violenza fisica (71,3%). La violenza sessuale concerne invece in misura superiore quelle che hanno meno di 29 anni (36,1%). Quasi tutte le donne con più di 30 anni (96,7%) hanno subito almeno una di queste forme di violenza: minacce, stalking, violenza psicologica, violenza economica.

Secondo quanto riportato dal recente report dell’ISTAT, nel 2023 circa il 44,1% delle donne ha dichiarato di non essere indipendente economicamente, percentuale che aumenta a più del 90% per quelle in cerca di prima occupazione, all’83,3% delle disoccupate, al 89,3% delle studentesse e al 83,3% delle casalinghe.

Il 40,2% (12.696) ha riportato di avere subito tra le violenze anche quella economica, l’impossibilità di usare il proprio reddito o di conoscere l’importo del denaro disponibile in famiglia e l’esclusione dalle decisioni su come gestire il denaro familiare.

Nel complesso vengono confermati i dati riportati dalla rete DIRE, per cui la maggior parte delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza non sono autonome economicamente. Il 74% delle donne infatti, secondo l’ISTAT, presenta almeno una delle seguenti caratteristiche: non sono indipendenti economicamente, sono arrivate al CAV richiedendo un supporto all’autonomia, al lavoro o di natura economica, hanno subito violenza economica o hanno usufruito del servizio di supporto all’autonomia messo a disposizione dal CAV.

 

Fig. 2 Lavoro e donne accolte dalla rete DIRE

 

 

Anche per quanto riguarda le donne straniere, richiedenti asilo o permesso di soggiorno, le violenze vengono esercitate da una persona a stretto contatto con la vittima, quasi sempre partner o un ex familiare. Anche le forme di violenza subite risultano essere le stesse: violenza psicologica, violenza fisica e violenza economica. Emergono tuttavia percentuali significativamente più alte: la violenza psicologica, che viene rilevata in quasi tutti i casi, quella fisica in oltre l’82% (vs 56,5%) e quella economica nel 50% circa (vs 34,6%), (vedi grafico fig.).

Altro dato rilevante è la percentuale delle donne straniere che subisce violenza sessuale e che risulta essere oltre il 40% (vs 16,9%).

 

Le donne straniere o richiedenti asilo risultano essere anche le più vulnerabili ad un’altra forma di violenza di genere, ossia quella della prostituzione o tratta a scopo sessuale. Le statistiche mostrano infatti che la maggioranza delle donne vittime del sistema prostituente è di origine straniera. Secondo stime e rapporti, circa 80-90% delle persone che esercitano la prostituzione in Italia sono donne.

L’indagine dell’Osservatorio antitratta del 2017 evidenzia che in Italia ci sono tra le 75.000 e le 120.000 prostituite. Inoltre, oltre la metà delle prostituite presenti in Italia sono straniere, provenienti principalmente da paesi dell’Europa dell’Est (Romania, Albania, Bulgaria, Ucraina) e dall’Africa (Nigeria in testa). Vi è inoltre una fortissima crescita di prostituite cinesi, coinvolte nello sfruttamento prostituente al chiuso (case, centri massaggi, ecc.). 

Il sistema prostituente si sta espandendo proprio perché frutta molto denaro a trafficanti e papponi. Inoltre rimane una delle forme di sfruttamento più gravi e dannose sia a livello fisico che psicologico.

 

Secondo l’indagine della rete DIRE, solo il 28% delle donne accolte nei centri antiviolenza denuncia la violenza subita e questo dato rimane pressoché costante negli anni. Le cause molto probabilmente sono legate alla vittimizzazione secondaria  esercitata dalle Istituzioni che entrano in contatto con le donne (servizi sociali, forze dell’ordine, tribunali ecc.) che continuano a ostacolare l’avvio di un percorso di fiducia che possa rassicurare le donne che hanno intenzione di rivolgersi alla giustizia.

 

Altra forma di violenza da attenzionare è la violenza istituzionale, esercitata nei tribunali dai padri separati, tramite l’utilizzo della cosiddetta PAS, sindrome da alienazione parentale, non riconosciuta dalla comunità scientifica e giudicata senza fondamento da una sentenza della Cassazione.  La PAS viene spesso utilizzata contro una donna e suo figlio nei tribunali italiani.

Si tratta di  una forma di vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni, così definita dalla Commissione parlamentare d’inchiesta Femminicidio della precedente legislatura, per la quale le donne non solo continuano a subire violenza istituzionale insieme ai loro figli (allontanati o meno) ma anche gravi diffamazioni dentro e fuori le aule di tribunale: sono classificate come mitomani e bugiarde, pseudo vittime, madri maltrattanti, conflittuali e alienanti. 

  • Nel 2022 è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 9691/2022, suscitando clamore poiché per alcuni avrebbe decretato la fine della PAS nei Tribunali minori,  e secondo la quale non può essere utilizzata la forza fisica per sottrarre il minore alla madre e al luogo in cui vive ed eseguire il trasferimento in casa-famiglia poiché si tratta di una “misura non conforme ai principi dello Stato di diritto”.

 

L’uso accurato del linguaggio è fondamentale per descrivere e affrontare la violenza basata sul sesso. Termini come “femminicidio” evidenziano la specificità della violenza contro le donne. Tuttavia, stereotipi di genere persistenti possono influenzare negativamente la percezione della violenza, portando a minimizzarla o giustificarla.

 

Altre statistiche rilevanti riguardano i femminicidi: 

  • -Anno 2022: Su 126 omicidi con vittime donne, 106 sono stati classificati come femminicidi. Inoltre, 61 donne sono state vittime di violenza in ambito familiare o affettivo.
    Anno 2024: Nei primi undici mesi, sono state registrate 100 vittime di femminicidio, considerando gli omicidi di genere e non solo (vedi fonte). Mentre secondo l’ISTAT i casi di femminicidio registrati nel 2024 risultano 61. Nel 2022, al 22 novembre, le donne uccise erano state 114, mentre nel 2021 erano 115.

I femminicidi si verificano su tutto il territorio nazionale, con una maggiore incidenza nelle regioni del Nord e del Sud Italia. Tuttavia, la distribuzione varia annualmente e dipende da diversi fattori socio-economici e culturali.

La maggior parte dei femminicidi avviene in ambito familiare o affettivo. Nel 2021, su 104 femminicidi:

  • -70 donne sono state uccise da un partner o ex partner.

  • -30 da un altro parente.

  • -4 da conoscenti in ambito affettivo o relazionale. 

Negli ultimi anni, il numero di femminicidi in Italia è rimasto relativamente stabile, con variazioni annuali contenute. Nonostante le campagne di sensibilizzazione e le misure legislative adottate, il fenomeno persiste, evidenziando la necessità di interventi più efficaci.

 

 

Criticità strutturali e giuridiche in Italia

 

La situazione delle donne in Italia, seppur riconoscendo i dovuti e necessari passi avanti, risulta ancora problematica per diversi aspetti. Manca nel paese una volontà politica concreta che intenda concepire il problema della violenza contro le donne nella sua totalità e complessità;  risultano gravemente deficitari i fondi messi a disposizione di tutti gli enti che si fanno carico delle donne vittime di violenza, è impossibile tenere traccia del reale utilizzo dei soldi statali destinati alla prevenzione e al supporto delle donne, a causa della complessità del coordinamento: in Italia, regioni, province autonome e, a volte comuni, hanno elaborato, nel limite della loro giurisdizione, proprie leggi e piani d’azione per contrastare la violenza.

 

La Convenzione di Istanbul definisce, tra i principali mezzi di contrasto alla violenza di genere, l’esigenza di politiche efficaci, globali e coordinate a livello statale, supportate dalle necessarie strutture istituzionali, finanziarie e organizzative. All’articolo 7 richiede agli Stati contraenti di garantire che le misure coordinate e globali per prevenire e contrastare la violenza nei confronti delle donne riguardino tutte le forme di violenza contro le donne. Oltre alla violenza domestica, una forma di violenza nei confronti delle donne che ha dato una spinta verso una risposta politica globale in linea con le “4 P” della Convenzione di Istanbul sono le mutilazioni genitali femminili. Per questo è stata emanata la Legge n. 7/2006, espressamente dedicata allo sradicamento di questa pratica dannosa. Tra le varie misure previste dalla legge, vi sono l’organizzazione di campagne informative per donne migranti originarie di Paesi in cui si praticano le mutilazioni genitali femminili, lo sviluppo di piani formativi e guide interdisciplinari per le figure professionali del settore sanitario e la creazione di numeri verdi dedicati. Delle misure così ampie e integrate, che coprono gli ambiti della prevenzione, della protezione e della punizione, non sono state elaborate per altre forme di violenza nei confronti delle donne altrettanto devastanti, come lo stupro e la violenza sessuale al di fuori del nucleo familiare, le molestie sessuali, il matrimonio forzato, la sterilizzazione forzata e l’aborto, nonché i reati commessi contro le donne nel nome del cosiddetto onore. Sebbene il Codice Penale sia stato recentemente modificato per criminalizzare alcune di queste forme di violenza e per garantire la conformità rispetto alla convenzione, una risposta olistica richiederebbe che tale modifica legislativa fosse accompagnata da misure preventive e protettive.

 

In Italia, le principali fonti di finanziamento a supporto delle politiche e misure di prevenzione e lotta alla violenza nei confronti delle donne sono quelle introdotte dalla Legge n. 119/2013. La prima costituisce i  fondi necessari per attuare il piano d’azione o la strategia nazionale contro la violenza basata sul genere (Articolo 5 della Legge n. 119/2013), mentre la seconda è dedicata nello specifico al finanziamento di servizi di supporto e protezione specializzati per le vittime, ossia centri antiviolenza e case rifugio (Articolo 5-bis della Legge n. 119/2013). Il compito di programmare, distribuire e monitorare l’uso dei fondi stanziati dalla Legge n. 119/2013 è affidato al DPO (Dipartimento per le pari opportunità). Gli altri dati sui fondi messi a disposizione dai dipartimenti governativi sono scarsi e frammentari, nonostante gli sforzi compiuti dalle autorità, in particolare il Ministero dell’Economia e delle Finanze, per elaborare tali dati attraverso il bilancio di genere.

 

Una delle conseguenze di questo sistema a più livelli di finanziamento è il ritardo con cui i fondi raggiungono i destinatari finali, in particolare le ONG che gestiscono i centri antiviolenza e/o le case rifugio. Uno studio condotto in questo settore, basato sui dati aggiornati al 31 ottobre 2018, ha mostrato ad esempio che degli importi riservati ai centri antiviolenza e alle case rifugio per il biennio 2015-2016, sono stati versati solo il 30.6 % dei finanziamenti per la gestione delle strutture e il 17 % per la creazione di strutture. Un ulteriore effetto di questa modalità di distribuzione dei fondi nazionali è la mancanza di trasparenza e uniformità nella gestione delle risorse a livello regionale e locale. Nonostante siano in vigore delle procedure che richiedono alle regioni di rendicontare regolarmente al DPO il loro uso dei fondi, e malgrado le informazioni derivanti da tali rapporti vengano pubblicate sul sito web del DPO, non ci sono dei criteri abbastanza chiari per stabilire se un centro antiviolenza abbia diritto al finanziamento, generando così incertezza sull’utilizzo dei fondi.

 

Le associazioni di donne consultate dal GREVIO operano principalmente su base volontaria gratuita e/o scarsamente retribuita e molte di loro incontrano difficoltà a coprire anche i costi di base dei propri programmi, calcolando anche  l’assenza di meccanismi finanziari adeguati a garantire una erogazione a lungo termine dei servizi specialistici per le donne, che riconoscano il valore sociale del loro operato e la diversità rispetto alle imprese a scopo di lucro.

 

La ricerca termina esortando vivamente l’Italia a sviluppare altri indicatori per il bilancio di genere che consentano l’individuazione dei budget stanziati e degli importi effettivamente spesi da tutti gli enti del governo centrale interessati, a supporto di prevenzione e lotta alla violenza contro le donne e a raccogliere dati a livello centrale sul finanziamento da parte dei vari livelli dell’amministrazione territoriale (regioni, province, comuni).

 

Per decenni in Italia, i movimenti di donne e le ONG per i diritti delle donne hanno rivestito, e continuano a rivestire, un ruolo fondamentale nel sostenere e permettere l’evoluzione delle misure legislative e politiche per prevenire e combattere la violenza nei confronti delle donne, nel rispetto dei principi internazionali e, più di recente, dei principi della Convenzione di Istanbul. Il sistema italiano di protezione e supporto delle vittime di violenza e dei loro bambini si basa in larga misura sul lavoro delle ONG di donne, che di norma si strutturano in organizzazioni senza scopo di lucro che gestiscono centri antiviolenza e case rifugio a livello locale o regionale. Oltre a gestire servizi specializzati per le vittime, tali ONG organizzano attività di prevenzione e offrono formazione sulla violenza nei confronti delle donne per funzionari delle forze dell’ordine, pubblici ministeri, magistrati, assistenti sociali e altri soggetti interessati. Il ruolo delle organizzazioni di donne è stato di recente riconosciuto a livello legislativo su scala nazionale. Il principio della loro partecipazione alla elaborazione di politiche di contrasto alla violenza nei confronti delle donne è stato espressamente riconosciuto dall’Articolo 5, comma 1 della Legge n. 119/2013, che ne richiede il coinvolgimento nella progettazione del secondo PAN (Piano di azione nazionale) sulla violenza nei confronti delle donne. L’Articolo 5-bis di questa legge ha inoltre riconosciuto la necessità che tutte le istituzioni pubbliche collaborino a stretto contatto con le associazioni e le organizzazioni della società civile impegnate a fornire supporto e assistenza alle donne vittime di violenza, compresi i centri antiviolenza e le case rifugio.

 

È necessario notare e monitorare anche tutto ciò che accade all’interno della magistratura, nei luoghi dove essa esercita il suo potere, il linguaggio che adotta nelle sue sentenze, che hanno la capacità, se non di creare, sicuramente di rigettare, riflettere e perpetuare, modi di analizzare e vivere la società attraverso stereotipi e pregiudizi di genere.

 

Attualmente, nella giurisprudenza italiana, l’orientamento interpretativo maggioritario è quello secondo cui, nel processo penale, la testimonianza della persona offesa può essere assunta autonomamente come fonte di prova della colpevolezza dell’imputato. Poiché la deposizione testimoniale della persona offesa non può essere parificata a quella del terzo disinteressato, la verifica della credibilità soggettiva della dichiarante e dell’attendibilità intrinseca della sua testimonianza dev’essere condotta più rigorosamente rispetto a quella cui sono sottoposte le dichiarazioni testimoniali tout court. Nei processi per reati di violenza sessuale e domestica, tale verifica risulta alquanto problematica, poiché l’imparzialità di giudizio viene spesso minata da un’ideologia sessista che nega alla vittima di reato la possibilità di offrire compiutamente e vedere riconosciuta la propria versione dei fatti.

 

In ordine all’attività investigativa e all’organizzazione delle procure, la situazione si presenta molto variegata tra i diversi uffici, evidenziando che non vi è sufficiente consapevolezza della peculiarità dei fenomeni in trattazione, mancando spesso la capacità di rendere “strutturali” le buone prassi sperimentate in alcuni uffici. 

 

Nonostante l’evoluzione del quadro normativo italiano in materia di violenza di genere, nella giurisprudenza di merito permane una diffusa modalità interpretativa che ricerca nella vittima le cause che muovono la condotta delittuosa dell’imputato, oscurando il movente di genere ed esponendo la persona offesa dal reato a una vittimizzazione secondaria.

 

Analizzando il grado di partecipazione delle donne e delle ragazze ai processi che le riguardano, è necessario specificare alcuni punti: l’Italia presenta una differenziazione molto marcata sotto l’aspetto economico, sociale e culturale; persistono dalla sua unione problemi e criticità secolari, che il paese ancora tenta di risolvere. La questione del Mezzogiorno (espressione utilizzata per descrivere l’arretratezza diffusa che caratterizzò a lungo il Sud dell’Italia, forse mai del tutto risolta, anche a causa di migrazioni di massa verso il Nord,  definite oggi “fuga di cervelli”, che contribuiscono al divario economico del paese), il livello d’istruzione, la capacità economica, la possibilità di frequentare luoghi, ambienti, circoli anche culturali stimolanti e partecipativi sono fattori strutturali e ambientali, che incidono sulla possibilità e sulla scelta delle donne e delle ragazze di  partecipare in maniera attiva, consapevole e contributiva alla vita politica del paese.

 

In Italia esistono diverse occasioni, luoghi, associazioni, che consentono alle donne interessate di entrare a far parte di circuiti che supportano le donne, non solo all’inizio di un percorso di aiuto, ma anche nelle fasi di cura che seguono la messa in sicurezza della persona: si tratta di passeggiate accompagnate, sportelli di ascolto, corsi di formazioni, lezioni di ballo, canto e musica. Anche la società dall’esterno può contribuire, in tutte queste forme, alla ripresa fisica, ma soprattutto psicologica ed emotiva, della donna vittima di violenza. Sebbene poco pubblicizzate, in Italia operano attivamente 1047 organizzazioni femministe, un network universitario UN.I.RE (UNiversità In REte contro la violenza di genere) composto da università, centri di ricerca e ricercatrici/ricercatori che condividono l’obiettivo di applicare la Convenzione di Istanbul, a partire dal sistema accademico, che da Nord a Sud,  informa, forma con programmi ad hoc, ricerca ed incrementa iniziative con le autorità locali, le associazioni della società civile e i centri anti-violenza.

 




Raccomandazioni

 

Sono diverse le azioni che dovrebbe intraprendere il governo se intende veramente tutelare le donne dalla violenza di genere, tra queste:

  • abolire la legge 54/2006 sull’affido condiviso che, invece di proteggere i minori durante le separazioni, li espone a gravi rischi, favorendo relazioni genitoriali violente e dannose. Questi bambini possono sviluppare sintomi come depressione, dissociazione e comportamenti autolesionisti. “Purtroppo, le dispute sull’affido possono essere utilizzate, da chi maltratta e abusa dei bambini, come un’opportunità per prolungare o mantenere il controllo e il potere sulle vittime di violenza domestica, anche dopo la separazione, i rinvii a giudizio e, in alcuni casi, nonostante le condanne penali per abusi fisici e psicologici.”

  • -Promuovere il modello egualitario per contrastare lo sfruttamento sessuale. In Italia vige la legge Merlin grazie alla quale vengono puniti il favoreggiamento della prostituzione; l’induzione alla prostituzione; il reclutamento di prostitute; lo sfruttamento ai fini della prostituzione; la gestione di case chiuse. La legge va però rafforzata dal punto di vista della punibilità del compratore.

  • Nel 2008 è entrata in vigore in 14 Paesi europei la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la tratta di      esseri umani che consente ai paesi membri di perseguire i clienti. 
  • -Per combattere i femminicidi è necessario: un inasprimento delle pene per femminicidio; l’adozione di politiche di protezione efficace; il potenziamento della rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio; fornire assistenza psicologica e legale gratuita; formare operatori e forze dell’ordine sul fenomeno; promuovere campagne di sensibilizzazione; adottare misure di protezione nelle cause di separazione; prevenire l’uso improprio dell’alienazione parentale; la creazione di una rete integrata tra enti pubblici, associazioni, centri antiviolenza e servizi sociali; garantire un processo equo e introdurre un supporto economico per le donne che denunciano violenza.

  • -Per fronteggiare la violenza online, è necessario adottare misure legali, educative e di supporto, sia a livello individuale che istituzionale. In Italia, dal 2019 esiste una legge specifica contro il revenge porn (art. 612-ter del Codice Penale), che punisce chi diffonde immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso della persona coinvolta. Le pene possono arrivare fino a 6 anni di carcere. È importante che le leggi vengano continuamente aggiornate per rispondere alle nuove forme di violenza online, comprese le tecniche di anonimato utilizzate per sfuggire alla giustizia. 
  • -È fondamentale educare le nuove generazioni sui rischi della violenza online e sulla protezione della propria privacy ed è necessario informarli sui rischi di Onlyfans. La narrazione edulcorata e finta dei media non rappresenta la realtà di tale piattaforma e va assolutamente contrastata.

 

 

Bibliografia

 

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