Resistenze maschili: uomini sulla difensiva

di Gabriele Lenzi

Queste note nascono da considerazioni personali fatte in seguito a un bell’incontro pubblico, circolare, ben costruito e stimolante, promosso da Amica Donna a Sarteano qualche anno fa, in cui l’atteggiamento di alcuni uomini presenti, un atteggiamento sospettoso e difensivo, seppure educato ed apparentemente dialogico, mi ha colpito di più emotivamente e mi è sembrato più meritevole di analisi del dibattito più costruttivo che ho sentito dalle voci femminili. Quantomeno, queste loro reazioni mi hanno detto maggiormente qualcosa su di me e sul mio percorso. Mi era stato chiesto un report o delle considerazioni, che non avevo mai completato. Le scrivo ora, perché in Resistenza Femminista abbiamo sempre cercato di avere un rapporto con il tempo diverso da quello delle scadenze e delle imposizioni esterne, per cui accanto ai tempi stretti che certe battaglie inevitabilmente impongono per non disertare la lotta alle pressioni politiche avverse, alcune altre riflessioni non invecchiano, non perdono di senso, e hanno bisogno piuttosto dei tempi della relazione, della riflessione, del desiderio, della vita.

 

una cartolina di propaganda anti-suffragette

Quale modello di telecamera hai utilizzato?
Dalle immagini mi sembra un modello un po’ superato.
” 

(domanda di un uomo alla regista dopo la proiezione
di un documentario sullo stupro, Oxford, 2014)

Il caso di alcuni uomini che prendono parte a un incontro sugli stereotipi e sulla violenza di genere per minimizzare o contrastare – piuttosto educatamente, certo – sia alcuni dei concetti che emergono, da voci femminili o maschili, sia alcuni dei presupposti dei temi femministi non ha ovviamente valore statistico ma è un sintomo interessante dell’atteggiamento maschile. Credo anzi che riportare nello specifico e riflettere sui contenuti di queste resistenze maschili possa permettere un salto dall’episodio in sé verso riflessioni più generali e quindi interessanti politicamente, grazie all’esperienza che ho di resistenze analoghe, sperimentate dentro di me e nelle voci di altri uomini.

Ovviamente tutte noi persone abbiamo difficoltà nel vedere la cultura patriarcale che ci permea. Anche ad uscirne completamente. Le donne hanno il vantaggio di un modello di riferimento che è la cultura femminista che ha proposto modelli contrapposti, letture diverse della società, riflessioni critiche sulla cosiddetta neutralità della civiltà che viviamo. Ma anche senza un modello di riferimento come questo che ci sembri immediatamente parlare a noi maschi, sarebbe auspicabile che in un uomo che si sente interrogare sugli stereotipi e sulla violenza maschile sulle donne sorga quantomeno il dubbio che alcuni dei temi che sente esporre abbiano qualche barlume di verità e di senso, e che anche lo riguardino personalmente in qualche modo. Che si opponga ad essi o ne contesti i presupposti, invece, mi sembra un comportamento da analizzare. Bisogna anche dire che questo tipico, diffusissimo contrasto morbido, mascherato da volontà di dialogo, si apparenta molto di più al contrasto acceso che all’alleanza politica o alla costruzione di un percorso comune.

La resistenza più forte rispetto alla questione di genere è negarne la specificità: “La cosa più importante è il rispetto delle diversità. Di qualunque tipo esse siano”. In questo argomento (da cui si può ricavare che tutti e tutte indiscriminatamente siamo un po’ “cattivi” a volte, e che chiude qui la questione), l’intenzione manifesta di prendere parola contro le ingiustizie si perde in una genericità che è soprattutto opportunista. Negando la specificità di ogni singola discriminazione – di quella patriarcale, di quella razzista, di quella di classe, di quella specista verso gli animali, di quelle verso le disabilità, l’età ecc. (e bisognerebbe verificare se non abbiano in gran parte una matrice comune) – si evita di sottolineare che il problema ha ogni volta soluzioni specifiche e non generiche; ovvero, ogni tipo di discriminazione ha le sue strutture sociali che la supportano, e queste strutture sono in gran parte la normalità di una civiltà, non le sue eccezioni, e che pertanto queste discriminazioni creano e consolidano i vantaggi di alcuni sottogruppi umani e gli svantaggi di altri (ovviamente, questo non significa né che nessuna donna possa ottenere alcuni vantaggi parziali, magari apparenti, da un sistema patriarcale né che un uomo ne abbia sempre di evidenti o particolarmente significativi per la sua vita; inoltre, sessismo, classismo, razzismo eccetera si intersecano complicando il quadro). Questo porta a dire che le soluzioni sono ad hoc, devono prendere in considerazione le specifiche discriminazioni e agire là dove queste avvengono combattendo anche le forme di organizzazione sociale che le supportano; in particolare, poi, significa anche affermare che alcuni gruppi specifici devono cambiare perché, anche se non sono gli unici portatori della cultura che dona loro dei vantaggi, sono senza dubbio quelli che hanno più interesse a mantenerla.

Dire che “l’importante è il rispetto” è mettere sullo stesso piano discriminati e discriminanti, come se fossero sempre intercambiabili, e dimenticarsi insomma in un colpo solo che in molti casi la “mancanza di rispetto” (in realtà, togliere diritti) rinforza le disparità tra distinzioni specifiche, come quella tra uomini e donne, e non tra individui casuali. Fare violenza domestica, stuprare, sminuire le donne considerandole degli oggetti sessuali da umiliare, riconfermarne il ruolo di depositarie privilegiate della cura e tutela di figli, anziani, animali, limitarne l’indipendenza economica, per fare alcuni esempi, sono la base sociale di una discriminazione che si può risolvere solo ammettendo che c’è uno specifico di genere, e che pertanto la lettura da dare non è che gli individui che si fanno portatori di queste violenze lo fanno perché sono, casualmente, individui poco rispettosi, ma che sono individui “poco rispettosi” perché condividono il nucleo fondativo della loro appartenenza di genere maschile. Affermare che è tutta una semplice “questione di rispetto” è in definitiva tirarsi fuori comodamente dalla responsabilità di condividere una cultura maschile, anziché aiutare ad analizzare come veniamo cresciuti, come si arriva a quelle violenze, anche quando non ci arriviamo nella nostra biografia, o non nelle forme più eclatanti. Possiamo infatti sapere meglio di chiunque altra perché ci si arriva, che cosa difendiamo o da cosa scappiamo, e rendere pubblico (in contesti politici, in gruppi di discussione, nei nostri luoghi quotidiani) questo percorso può solo essere positivo per noi uomini, che saremmo così più liberi di cambiare verso modelli relazionali rispettosi, paritari e che rigettano le norme non scritte ma incise sulla nostra pelle del dominio maschile. Un’utilità soggettiva, per migliorare le nostre vite, e sociale, per migliorare quelle degli altri uomini e soprattutto delle donne o in genere di tutte le persone bersagliate dalle discriminazioni sessiste. Perché dunque mettere in atto una forma di resistenza?

Queste resistenze hanno ovviamente la loro esplicitazione in una resistenza maschile “politica” al femminismo, una resistenza antifemminista. Gli uomini parlano del femminismo, magari, oggi, riferendosi alla stagione più visibile della militanza, gli anni ’70 (una stagione che fa comodo cristallizzare nel passato, così da vagheggiare un presente di presunta parità), come di qualcosa rispetto a cui erano “su fronti contrapposti”. Purtroppo gli stereotipi sul femminismo sono infiniti e diffusissimi nella nostra società. Quella che è stata come minimo una battaglia di rivendicazione di diritti diventa nelle opinioni diffuse “una dichiarazione di superiorità della donna”, “una dichiarazione di odio verso gli uomini”, un “tentativo di sovvertire la società” (e certo che lo è e lo è stato!) e molte altre cose antipatiche più difficili da definire in modo coerente. Per gli uomini in particolare il femminismo è stato vissuto come un affronto. La richiesta di un maschile diverso è stata letta opportunisticamente dagli uomini come una critica alla loro natura, non a una loro cultura che, appunto per motivi di privilegio (non fosse che quello di non mettersi in discussione, pratica sempre faticosa), non hanno voluto e continuano spessissimo a non voler mettere a fuoco. Il femminismo a me appare invece prima di tutto come la critica a una cultura che riguarda tutte le persone perché in modi diversi le rende tutte schiave di ruoli imposti; da un lato si negano persino diritti basilari e dall’altro si costruiscono, si dà l’opportunità di diventare, o si cerca di farlo, e troppo spesso ci si riesce, dei perfetti carnefici. Senza cadere in un’altra trappola argomentativa secondo la quale la voce del femminismo libererebbe gli uomini (una trappola, stavolta basata sulla polisemia di ‘liberare’, molto simile a quella criticata sopra, che appiattisce gruppi diversi da un lato e dall’altro di una discriminazione sulla generica denuncia della “mancanza di rispetto”), essa è senz’altro una voce per un’umanità, tutta, diversa. È un peccato respirare ancora, anche quando in forma edulcorata, un conflitto ‘voi femministe/noi…’ che cosa? ‘uomini dei movimenti’? ‘della politica dei partiti’? ‘uomini’ e basta? Qualsiasi cosa, in realtà, purché non abbia aperto un dialogo con il femminismo. Non è ovviamente un problema di parole ma di contenuti, e in questi casi non aiuterebbe semplicemente aggirare lo spettro del termine ‘femminismo’ per parlare, che so, di una ‘politica antipatriarcale’.

Perché queste resistenze? Difficile valutare un problema quando ne viene negata la stessa rilevanza. Quando si è dallo stesso lato dei carnefici, dei responsabili, diviene troppo scomodo mettersi in discussione, analizzare i propri privilegi? Come si arriva a una cultura che si rinnova sempre secondo questo schema disumano? L’educazione nel patriarcato – l’educazione ai ruoli, che viene dalla famiglia, dalle amicizie, dai media, dalle istituzioni sociali – mi sembra fondata in gran parte su una differenza maschile e femminile in rapporto all’empatia. Forse non è un tema che viene spesso messo al centro del dibattito in questi termini, ma mi pare innegabile. La negazione dei sentimenti per gli uomini è abbastanza esplicita – siamo sempre a rischio di una femminilizzazione discriminante, non appena ci comportiamo da “femminuccia”, da persona “senza palle”, da “frocio”, tutti modi di segnare lo stigma verso chi non si dimostra virile – mentre per le donne, più che derivare da un’educazione positiva all’empatia, è possibile che derivi da una precoce responsabilizzazione verso la cura degli altri, o semplicemente da una mancanza di stigma verso la relazione e la comunicazione, e poi ovviamente entrambi gli atteggiamenti si amplificano e confermano nelle dinamiche di socializzazione dei due generi. Tranne poi giungere a una specie di incomunicabilità che viene sempre rappresentata con i peggiori stereotipi e naturalizzata ma che ha delle origini e delle conseguenze che dovrebbero trovare una diversa narrazione e analisi. Non sarà vero che tutti gli uomini parlano sempre e soltanto (in Italia, ad esempio) di motori e di calcio, ma è vero che c’è una tendenza alla relazione amicale basata sul fare cose insieme più che sul parlare del proprio vissuto, dei sentimenti, delle relazioni. Io vivo sempre di più il disagio di questa tendenza maschile e ho sempre più difficoltà a instaurare nuove amicizie maschili per questo motivo, ma trovo rilassante con persone scelte passare – saltuariamente – il tempo parlando, appunto, dei “fare” che hanno contraddistinto la nostra storia: la musica, per esempio. In altri casi libri, film. Luoghi. Ma solo occasionalmente e con persone molto selezionate saranno incontri a base di racconti di esperienze personali. Parleremo di noi preferibilmente attraverso i nostri gusti, magari quelli che ci accomunano. Ma spesso è labile il confine tra cercare di parlare di noi in questo modo indiretto e il mitizzare e anche estetizzare un’amicizia per quel simbolo che è diventata nella nostra vita, anziché viverla e farla evolvere. In generale, comunque, di certo non trovo che questo sia un modello particolarmente difendibile. Mi pare uno dei sintomi della differenza culturale maschile/femminile che allo stesso tempo proviene e porta agli stereotipi e anche alla violenza che dovrebbe essere al centro del nostro interesse. Mi pare un segno evidente della nostra difficoltà ad essere in contatto con la persona che ci sta davanti.

Costei, seguendo Telemaco, portava le fiaccole accese: ché molto
tra tutte le schiave lo amava, lo aveva nutrito da bimbo.
Gli aprì la porta della solida stanza,
e lui sedette sul letto, si tolse la tunica morbida
e la gettò fra le mani della vecchia prudente:
essa piegò, lisciò con cura la tunica,
e l’appese a un piolo, vicino al letto a trafori:
poi uscì dalla stanza, tirò per l’anello d’argento
la porta e ne fece scorrere con la correggia il paletto.
Là tutta notte, ravvolto in un vello di pecora,
meditò nel suo cuore il viaggio che Atena ispirava.

(Od. I.434-444)

 

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