Disegnare il dolore per guarire dal dolore: l’arte politica di Sophie
Un grazie di cuore a Pina Nuzzo artista femminista per aver realizzato questo volantino con i disegni e le parole di Sophie, sopravvissuta alla prostituzione e attivista di Netzwerk Ella. Quando Sophie mi ha inviato i suoi disegni ho pensato subito a Pina come la donna che avrebbe potuto accogliere e prendersi cura del suo racconto valorizzando il messaggio politico della sua arte.
L’arte di Sophie ha per noi un significato personale-politico profondo. Il racconto del suo dolore e della sua liberazione dalla violenza ci riguarda e ci cura. La sua battaglia politica come quella del movimento internazionale delle sopravvissute è la nostra.
In una serie di tre disegni Sophie racconta le tappe della sua vita dall’infanzia fino ai 22 anni quando riesce ad uscire dall’inferno della prostituzione. Un romanzo di formazione attraverso le immagini accompagnate da parole o espressioni chiave che sottolineano emozioni, descrivono pensieri, spiegano le vicende rappresentate. A volte una stessa parola (come “rape” o “psycho”) dal valore emblematico viene ripetuta più volte per rappresentare il trauma, l’esperienza pervasiva del dolore.
Nel primo disegno Sophie racconta la sua infanzia in un contesto familiare disfunzionale, il padre militare è il “good hero”, per la madre invece usa l’espressione “psycho”. A un anno Sophie vive un’esperienza di abuso, a 4 anni il pensiero espresso nella nuvoletta è “non ce la faccio più a sopportare gli incubi” , è distrutta e sola. A 6 anni c’è un cambiamento: la madre affetta da malattia mentale scompare dalla sua vita (“bye bye psycho mum”) e come spiegano le parole che accompagnano il disegno di lei bambina che sta crescendo, “la vita migliora”. Sophie va a scuola e comincia a provare una sensazione di protezione, calore (“warm, warm, warm”) con la nuova famiglia, la chiesa, il benessere economico. A otto anni “tutto sembra andare bene ma….” in realtà il cuore di Sophie è malato come ci indica una freccia che punta dritta al suo petto, alla testa, agli occhi. Nonostante il dolore che Sophie prova nella mente e nel cuore è la migliore della scuola elementare, è considerata un genio. A 12 anni con l’arrivo dell’adolescenza cresce l’odio feroce (“pure hate”) contro se stessa. A 14 anni l’orrore dello stupro segna la sua vita. Lo stupro è rappresentato come un mostro che sogghigna e sovrasta Sophie dall’alto minacciandola. Il dolore profondo per il proprio corpo violato la porta a cercare un modo per anestetizzarsi: la cocaina prima, l’eroina qualche anno più tardi. Sophie piange, protende un braccio in alto come per accarezzare un uccellino che sta volando sopra di lei: “come faccio a fermare questo gioco?” si chiede. A soli 17 anni Sophie è già stata ricoverata in un centro di disintossicazione e nel reparto psichiatrico e arriva lui: il fidanzato psicopatico, uno stupratore violento tossicodipendente. Una frase campeggia nella parte superiore del disegno:”Vendi la tua anima puttana”. Questo imperativo che la società misogina patriarcale impone a Sophie la porta a desiderare la sua stessa autodistruzione: “Voglio morire sempre” . A 18 anni Sophie si rappresenta come una Barbie in vendita, sullo sfondo si intravede il profilo di una città, Francoforte, Sophie comincia a fare uso di crack, è emaciata, segnata dagli abusi e dalla tossicodipendenza. È circondata da psicofarmaci: Valium, Rivotal, Subutex e una lattina di whisky Jim Beam: quello che Sophie usa per sopportare gli stupri continui dei compratori di sesso. A 22 anni la liberazione: Sophie dice addio al suo passato di violenza, volta le spalle sorridente e accenna con la mano un saluto: “Addio droghe, addio abusi continui. Ciao Dio, Ciao Vita”.
Ringraziamo di cuore Sophie per aver condiviso con noi i suoi disegni ed averci autorizzate a pubblicarli. Grazie a Pina e Rachel Moran è nata l’idea di organizzare insieme una mostra di donne che “vogliono parlare del corpo prostituito femminile” un progetto importante a cui teniamo moltissimo.
Ripubblichiamo qui di seguito il post che accompagna il volantino con i disegni di Sophie scritto da Pina Nuzzo che trovate anche sul suo blog Laboratorio Donnae:
Un’amica di Resistenza Femminista , una donna con cui sono in relazione, mi ha mandato dei disegni di donne che sono uscite dalla prostituzione e che cercano attraverso l’arte di elaborare la sofferenza. Mi hanno commosso, in particolare quelli di Sophie. Abbiamo deciso di pubblicarli, con il suo consenso, perché sono la cifra di una misura trovata per dire di sé. Questione che ci riguarda tutte, quando il fare politica è partire dalla propria esperienza, esporsi.
Guardando i disegni ho ripensato al rapporto con l’amica di Resistenza Femminista e alle volte in cui abbiamo parlato della necessità e del rischio di raccontare.
Conservo una sua lettera, ecco: “cara Pina, ho appena letto quello che hai scritto sull’autocoscienza, per me una vera consolazione. Soprattutto quando parli del prendersi cura della altre che hanno condiviso il proprio racconto, si sono messe a nudo e se lasciate da sole tutto diventa ‘osceno’. Soprattutto quando c’`è chi analizza quello che racconti senza accoglierlo. Ho saputo, dopo il nostro incontro, che una ragazza ha commentato il mio racconto, dopo che ero andata via, dicendo che, diffondere certe testimonianze, rischiava di far passare una visione vittimista della donna. Sono rimasta ferita, anche se ci sono abituata, e mi dispiace che non ci siamo potute guardare negli occhi perché, sono certa, che questa ragazza, non avrebbe mai detto quelle cose con me presente. Ormai ho capito che, senza il mio corpo, le mie parole non solo non arrivano, ma possono fare danno a me e forse ad altre. Vengono immediatamente disincarnate. E’ così per ogni racconto di sopravvissuta alla violenza maschile. Credo nel confronto con donne anche molto diverse da me e lo pratico, ma in presenza. I nostri incontri sono importanti, mi sono sentita, protetta, accolta per questo ho parlato di me. Parlare, affidarvi una parte di me, mi libera da tanti pesi: tra cui residui di vergogna, senso di inadeguatezza, silenzio a cui sono stata costretta a lungo e che vorrebbero continuare ad imporci, perfino persone che si definiscono femministe. Perché certe storie non sono belle da ascoltare, creano imbarazzi, sono evidentemente davvero scomode. Grazie per questo e molto altro cara Pina, un abbraccio a presto!”
Rileggere queste parole ha rafforzato il mio convincimento – semmai ce ne fosse bisogno – che un’esperienza vissuta in solitudine può annientare. Per questo la politica delle donne è sempre stata la mediazione che ho privilegiato per stare nel mondo, ma anche l’arte.
Anche per Sophie arte e politica vanno di pari passo.
Sophie è attivista di Netzwerk Ella, un’associazione fondata nel 2018 da Huschke Mau. Un’associazione di donne che sono state o si trovano ancora nella prostituzione allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà della prostituzione, la necessità di adottare il modello nordico, offrire sostegno ed alternative valide alle donne prostituite e colpire la domanda di sfruttamento sessuale. Per le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione in Germania è ancora più difficile riuscire ad uscire visto che la società tedesca per effetto della legge regolamentarista considera normale che una donna sia sfruttata in un bordello, la violenza è occultata sotto la formula del “lavoro come un altro”. Per questo quando Huschke decide di uscire dopo 10 anni di violenze non ha ricevuto nessun aiuto, le è stato risposto che se non le andava più di ‘lavorare’ nel bordello poteva lasciare quel lavoro e fare altro. Ma la banalizzazione, la normalizzazione e l’occultamento della violenza della prostituzione non hanno cancellato i gravi traumi che le donne sviluppano a causa degli stupri reiterati dei compratori. Huschke e le donne della sua associazione denunciano come le donne prostituite debbano affrontare le conseguenze non solo a breve termine della prostituzione (effetti sulla salute, emarginazione sociale, difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro ecc.), ma anche quelle a lungo termine come la sindrome da stress post-traumatico con l’aggravante che questa violenza non è riconosciuta dalla Germania ridotta a Stato pappone. Quello che conta in un regime misogino patriarcale come quello tedesco è che il business miliardario dello sfruttamento dei corpi delle donne continui a prosperare e che i bisogni dei compratori siano soddisfatti a qualsiasi costo. I cosiddetti gruppi “per i diritti delle sex worker” non offrono alcun sostegno a chi chiede di uscire, ma adesso grazie all’impegno di attiviste sopravvissute come Huschke le donne si stanno organizzando, un numero sempre maggiore prende parola pubblicamente di fronte a media e politici in contesti internazionali e non accettano più di non essere ascoltate.
Sophie è un’artista, sono suoi i lavori che vedete riprodotti in questo post e annunciano un progetto che abbiamo appena avviato: coinvolgere donne che vogliano ‘parlare’ del corpo prostituito femminile, attraverso i linguaggi dell’arte. Vogliamo andare oltre il ‘noi e loro’ perché, come ho avuto modo di dire in diverse occasioni, la prostituzione riguarda tutte: chi è dentro e chi è fuori. La figura della prostituita è essenziale nella rappresentazione patriarcale; attraverso l’abuso e l’addomesticamento dei corpi, con la loro mercificazione, si annientano i desideri e i pensieri, si colonizza l’immaginario femminile. Tuttavia, non pensiamo di cancellare le esperienze, ma vorremmo che fossero comprese in una autorappresentazione collettiva: una mostra. Presto vi daremo maggiori informazioni. Pina Nuzzo
versione PDF dei disegni per stampa:
Per chi non accede a Facebook, questo è il testo citato dall’amica di Resistenza Femminista:
Autocoscienza e partire da sé.
L’autocoscienza presuppone uno spazio/tempo in cui trovarsi e parlarsi a partire dalla propria esperienza. Come si intuisce è una pratica orizzontale, fluida, condivisa che ha dato i suoi frutti e, se liberamente scelta, può darne ancora. L’autocoscienza non si impone, si sceglie.
Partire da sé è un passaggio ulteriore, vuol dire aver messo distanza tra sé e la propria esperienza per poterla restituire come fatto politico. Per far questo non occorre avere cultura o una particolare preparazione scientifica, occorre guardarsi e avere il coraggio di nominare quello che si è, quello che si vive. Non è facile perché è umana la tentazione di conformarsi con le idee e con la rappresentazione di un gruppo a cui si appartiene o si pensa di appartenere. Ma senza questo atto di responsabilità non c’è politica di donne, tra donne.
E non serve che una sola si esponga raccontandosi, perché, se questo avviene in un contesto di donne abili nell’uso della parola, che fanno riferimento agli studi di genere, quel racconto infragilisce e consuma chi lo fa. E diventa “osceno”.
Un gruppo di donne che voglia agire politicamente deve sentirsi responsabile di ciascuna donna, averne cura. Questo è il presupposto per progettare e fare insieme.
Pina Nuzzo
Gennaio 2017