Amelia Tiganus: Prostituzione, un privilegio per soli uomini

di Ilaria Maccaroni

Riassumiamo di seguito la seconda parte della Conferenza ““La Prostitución: ocio y negocio masculino” (la Prostituzione: svago e business maschile) tenutasi il 23 ottobre del 2018, nell’ambito del Programma  Clara Campoamor, Scuola di Pensiero Femminista dell’Assessorato per la Parità e la Sicurezza del Municipio di Fuentelabrada (Comuniutà di Madrid, Spagna), in cui parla l’attivista femminista sopravvissuta alla prostituzione e vegana Amelia Tiganus.

Secondo Amelia, attualmente la prostituzione, oltre a rappresentare un privilegio per soli uomini, è una delle esperienze che maggiormente li unisce, è il loro zoccolo duro, un ambito nel quale essi trovano diversi modi per resistere al cambiamento e agli obiettivi che, di volta per volta, vengono raggiunti dalle donne e dalle femministe in tutto il mondo. Gli uomini, però, (non tutti certo ma una parte di essi), non vogliono cambiare ed è proprio nell’ambito della prostituzione che si difendono con il permesso e il via libera della Stato.

A contrastare tutto questo ci sono le femministe, che non sono disposte ad accettare di prestare il fianco alla campagna mondiale per la deregolamentazione del mercato del sesso, in primo luogo perché sanno benissimo che tutte le donne sono “prostituibili”, e che questa campagna sta avendo ripercussioni devastanti sulla libertà e l’autodeterminazione delle donne in generale. In secondo luogo, le femministe non hanno intenzione di cancellare con un colpo di spugna tutti i diritti raggiunti attraverso anni di lotta soltanto affinché il patriarcato possa trasformarci tutte in un mero oggetto da usare e abusare.

Questo non significa essere “puttanofobe” e l’affermazione non può essere considerata nemmeno un’argomentazione, perché non esistono argomentazioni che spieghino quando e come ci siamo convinte che alcune donne debbano offrire il proprio corpo affinché il desiderio sessuale di alcuni uomini diventi un diritto, mentre il loro desiderio sessuale scompare e si trasforma nella “grande opportunità” di diventare una “lavoratrice sessuale”.

Chi di noi non ha mai sognato di essere una lavoratrice del sesso?

É questo che vuole da noi il sistema prostituente, il modo con cui invia messaggi alle donne.

La lobby pappona ha ribattezzato quelle che un tempo erano conosciute come le vecchie “armi femminili”, parola che oggi viene considerata un tantino antiquata e misogina, e che è stata sostituita dall’espressione “capitale erotico”. Le donne sono dunque depositarie di questo non ben specificato capitale erotico.

Nel frattempo, la lobby pro-prostituzione si sforza di farci vedere che esiste una prostituzione “cattiva” e una “buona”, quella della tratta e quella volontaria. E questo confonde tanto. Prima di tutto perché la gente in generale non sa cosa sia davvero la tratta, sa solo quello che i mezzi di comunicazione (che sono agli ordini della lobby pappona), vuole che essa sappia.

Amelia stessa dice di essersi resa conto di essere stata una vittima di tratta solo molti anni dopo esserne uscita. Perché, spiega, fino a quel momento le avevano fatto credere che era stata lei ad aver scelto di diventare prostituta; che, certo, aveva fatto una scelta sbagliata ma che era stata comunque una sua responsabilità, sebbene non sapesse e non avesse, all’epoca, i mezzi per capire in quale situazione e in che condizioni avesse dato il suo consenso.

Le donne vittime di tratta, secondo il messaggio stereotipato che ci invia la lobby pappona, sono le donne costrette a prostituirsi, quelle che vengono rapite e incatenate, malmenate e che hanno la consapevolezza, in ogni momento della loro prigionia, di essere sfruttate sessualmente. Per cui, quando anche Amelia si trovava nella prostituzione, perfino a lei facevano pena le vittime di tratta, credeva di non essere come loro, di essere più furba delle altre e di non trovarsi in condizioni di sfruttamento.

Al contrario, è invece necessario che le vittime di tratta si rivendichino come tali, dal momento che la parola “vittima” significa che un essere innocente ha visto i suoi diritti calpestati, che c’è un carnefice che deve pagare per quello che ha fatto, e poi c’è uno Stato che deve tutelare e riconoscere il diritto di risarcimento della vittima.

In genere, però, se una vittima di tratta chiede di essere riconosciuta in quanto vittima, diventa un punto a suo svantaggio, giacché l’opinione comune nel suo caso è che “se la sia cercata”, una situazione che rientra nella strategia del patriarcato per occultare il carnefice.

Tuttavia, rinunciando a riconoscere le donne come vittime, si continua a rendere invisibile i loro carnefici. È logico: se non esiste la vittima, non esiste nemmeno il carnefice; esiste soltanto quella che viene chiamata “libera scelta”. E questo punto di vista è tutto fuorché femminista.

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