Alisa Bernard, sopravvissuta e attivista USA: “La mia storia è la mia forza”

Alisa Bernard sopravvissuta e attivista di OPS (Organization for Prostitution Survivors), Seattle, USA [progetto di ANNE K. REAM, THE VOICES AND FACES PROJECT, foto di LYNN SAVARESE, NEW ABOLITIONIST]
Traduzione dall’inglese di Chiara C.
Una delle esperienze che più mi ha aiutata a guarire dal trauma negli ultimi tre anni è stato parlare e scrivere del mio percorso nella prostituzione. L’ho condiviso in gruppi con altre sopravvissute, con politici a cui volevo far cambiare idea, con i media.
Ogni volta che sostengo la mia verità e la dico, mi sento più forte.
I reality show non sono la realtà.
Il modo in cui la prostituzione è rappresentata in TV e nei film- l’immagine celebrata e glamour della “Puttana Felice”- non rappresenta assolutamente la realtà che viviamo. La maggior parte di noi è stata vittima di abusi sessuali durante l’infanzia, violenza domestica o è stata senza tetto. Molte di noi hanno subito tutte queste cose insieme. Quando togli tutti gli strati e scopri quello che c’è sotto, di solito c’è una ragione per cui è successo.
Per me, la prostituzione è stato il culmine di una vita di traumi.
Avevo nove anni quando sono stata abusata sessualmente per la prima volta. Più tardi sono stata presa di mira da un pedofilo che faceva parte dello staff della scuola privata che frequentavo. Dopo aver lasciato la scuola a 15 anni, vivevo dentro e fuori casa e usavo il “sesso di sopravvivenza” per sostenermi.
A volte la soluzione è di fatto il problema.
Ho fatto la vita per molti anni quando un cliente mi offrì vitto e alloggio per pagare le tasse del college. Ma l’idea che la prostituzione fosse un modo per risollevarsi era una bugia. Ha avuto l’effetto opposto su di me. Era come suicidarsi- un lento suicidio, mentre ti guardi scomparire.
Online non significa che è sicuro.
Le persone dicono che avere un sito è un modo per individuare potenziali clienti pericolosi. Posso dire dalla mia esperienza personale che non è assolutamente vero. Nei forum i clienti trattano le donne come beni di consumo, merci acquistate su cui scrivere recensioni come si trattasse di una lavatrice. Quando gli uomini ti vedono come un oggetto, è molto più facile per loro trattarti come un oggetto.
Per favore non chiamatelo “sex work”.
Non molte donne sceglierebbero liberamente un lavoro dove la violenza sessuale, le malattie, l’abuso fisico e psicologico e perfino la morte sono fattori di rischio. Non è una professione. È sfruttamento.
Le eccezioni non dovrebbero dettare la regola.
Anche se una piccola percentuale di persone nel mercato del sesso dicono di aver scelto la prostituzione, non è stato così per la maggioranza di noi. Una delle ragioni per cui sto raccontando la mia storia è perchè credo che la mia esperienza sia molto più vicina alla maggioranza delle esperienze delle sopravvissute. Troppe voci di sopravvissute sono state messe a tacere nel dibattito se la prostituzione dovrebbe essere considerata un lavoro come un altro.
Dobbiamo parlare di economia.
Quando le persone dicono che il mercato del sesso dovrebbe essere regolamentato così che coloro che sono povere o vulnerabili possono avere un mezzo di sostentamento, sono completamente fuori strada. Questo è un argomento per chiedere maggiori possibilità lavorative e un reddito equo, non certo per giustificare l’acquisto o la vendita delle persone.
Non mi sono mai definita una “sex worker”, ma considero quelle che lo fanno mie sorelle.
Stanno provando lo stesso dolore che ho provato. Le vedo trascinate avanti negli anni ogni volta che mi guardo nello specchio. E capisco che a volte devi convincere te stessa che quella è la tua unica possibilità per continuare ad andare avanti.