13 gattari ma con quali desideri

di Gabriele Lenzi 

Un intervento pensato per “Mio fratello è figlio unico”. Cosa cambia se cambiano i desideri degli uomini? Una riflessione sul desiderio di cura negli uomini, a partire da esperienze nell’animalismo. La difficoltà e talvolta il disinteresse a coltivare questo tipo di desideri corrisponde a una riluttanza a renderlo anche una via di trasformazione politica.

incontroDa quasi dieci anni faccio volontariato animalista, a livello locale e in modo del tutto informale, con una piccola sezione di un’associazione nazionale. Svolgo alcuni compiti di pubbliche relazioni, come scrivere lettere e articoli destinati a quotidiani e, più spesso, presenziare a banchetti informativi cercando di intercettare adottanti affidabili per animali abbandonati. Per la maggior parte però si tratta di un volontariato molto pratico, incentrato sulla cura e la tutela delle colonie feline (aggregazioni spontanee di gatti randagi), con l’alimentazione e le catture temporanee ai fini di sterilizzazioni e di cure veterinarie. Queste situazioni dovrebbero essere seguite dal Comune e dalle ASL ma in realtà se ne occupano, da un lato, associazioni di volontariato, con un rapporto spesso difficile con le istituzioni, dall’altro lato una realtà enorme e tendenzialmente invisibile – con cui le associazioni entrano in contatto tanto più quanto più operano sul territorio – di persone che se ne prendono carico spontaneamente, senza essere parte di reti di volontariato organizzato.

Il dato che trovo interessante è che in tutta questa situazione c’è una caratterizzazione di genere nettissima. Sono entrato in contatto (collaborando o quantomeno incontrandosi nei gattili e canili, ai banchetti informativi, dai veterinari, negli uffici istituzionali, negli interventi sul territorio eccetera) con alcune centinaia di persone coinvolte nelle associazioni, e nella quasi totalità erano donne, di varie età, provenienze geografiche ed estrazioni sociali. Lavoro quindi in questo campo con donne da circa dieci anni, donne che curano gatti, cani, a volte animali usciti dai laboratori o altri abbandoni, che hanno diversi modi di essere animaliste, a volte non sono neanche vegetariane ma “appassionate” di animali, donne molto conflittuali tra cui è difficilissima la collaborazione. Ma, in pratica, tutte donne.

Lo scarso dato maschile in questo campo è ancora più interessante se poi, nel mio piccolo, e qui diventa arduo fare statistiche, devo osservare che i pochissimi uomini che ho conosciuto hanno interessanti caratteristiche antipatriarcali. Intanto, sforzandomi di ricordare tutti gli uomini volontari di associazioni con cui sono entrato in un contatto anche solo fugace in questa esperienza, sono riuscito a contarne tredici, me compreso. Di questi, cinque si dichiarano omosessuali. Uno si è fatto vasectomizzare per motivi ideologici, rinunciando a una delle caratteristiche maschili più caricate di significati simbolici. Uno svolge per professione un compito di cura: infermiere in ambito psichiatrico. Sei, tra cui io, ci siamo avvicinati al volontariato per tramite di attiviste, amiche o compagne: un dato in cui non mi pare scorretto leggere il desiderio e la capacità di dialogare e di farsi influenzare da donne. Quattro di questi tredici, però, ricoprivano ruoli di prestigio nelle associazioni, a livello locale o nazionale: ovvero, come osservo anche nella mia attività di supplente precario nelle scuole medie, i pochissimi uomini presenti si trovano facilmente ad assumere ruoli di potere. Quest’ultima considerazione si lega anche al fatto che la presenza maschile, come mi confermano attivisti in città come Milano e Roma, aumenta nell’animalismo “ad alti livelli”, meno pratico di quello di cui sto parlando: organizzazione di grandi associazioni, proposte di legge, approfondimento teorico, eccetera. Man mano, cioè, che ci si allontana dall’ “animalismo della cura”.

A livello di persone non associate che si occupano spontaneamente di tutela degli animali sul territorio urbano, la caratterizzazione di genere cambia leggermente, ma non sostanzialmente, e conferma lo stesso quadro generale. Le persone che si occupano di randagi – si parla di randagismo felino, che ha caratteristiche di abitudinarietà e rapporto stabile con uno stesso territorio – sono, anche qui, nella quasi totalità dei casi donne: “gattara”, d’altra parte, è un termine che se non trova spazio nelle leggi è comunque del tutto normalizzato negli Uffici Ambiente comunali, nelle Aziende Sanitarie Locali, dai veterinari.

Grazie ai banchetti informativi per strada, però, sono entrato in contatto anche con una realtà più sfumata. Moltissimi uomini si emozionano per gli animali e si fermano a raccontare rapporti idillici con gatti, cani e altri animali domestici. Le storie che si ascoltano sono storie di amicizia e di amore a volte stupende. Si sente anche dire da uomini che danno da mangiare a qualche gatto di passaggio o che hanno fatto qualche salvataggio o denunce per abbandoni a cui hanno assistito. Ma manca generalmente il salto dallo sporadico, dall’episodico, alla responsabilità più piena – non solo, come già visto, verso l’associazionismo, ma anche per esempio verso la cura delle colonie. Nel 2008 ho collaborato a un censimento delle colonie feline di un intero comune e ho raccolto dati riguardanti 126 colonie. Tra le persone che se ne erano dichiarate responsabili, 57 erano donne e 20 uomini (che non ho mai conosciuto ma erano noti a mie colleghe), proporzione apparentemente non disarmante ma che deve essere incrociata con il dato che soltanto tra le donne vi erano responsabili di più colonie (ossia, ad alcune di quelle 57 donne corrispondevano un centinaio di colonie), il che fa inoltre ipotizzare che probabilmente gli uomini curassero una colonia in un luogo abituale, mentre di certo alcune donne dovevano recarsi appositamente in alcune delle colonie seguite. In tutti questi anni, poi, personalmente non ho incontrato nessun uomo che si presentasse all’associazione per risolvere un problema sanitario di una colonia, o per la cattura e sterilizzazione degli animali, o per riuscire a catturare un animale evidentemente sperso o abbandonato in un’area pericolosa. Gli uomini, così sembra, tendenzialmente o riescono a risolvere la situazione da sé o affidano il singolo caso al fatalismo.

Sia i numeri dell’assenza maschile sia la frequente incapacità di organizzare o dar voce ai desideri di cura attestano un’ampia riluttanza verso un tema, quello del rapporto con gli animali, che pure non è una bizzarria se molte, moltissime donne vi si attivano, laddove ci siano situazioni di disagio e bisogno, dando a volte veramente un’energia e una quantità di risorse incredibili. In questo riconosco una riluttanza che mi attraversa. Io stesso sono stato una presenza incostante nella mia associazione. E uno dei motivi che sento più forti in questa distanza, un motivo che sento anche al centro della difficoltà alla cura in generale – degli altri, degli amici, dei dipendenti da me come possono essere animali domestici o potrebbero essere dei figli – è la spinta fortissima al privilegio del tempo libero e di uno spazio tutto per me che tende però a schiacciare altre attività e relazioni.

La presenza del privilegio di genere, insomma, mi pare evidente: l’uomo si sente legittimato a disinteressarsi della cura, o di una cura sistematica, anche quando entra in contatto con individui che ne avrebbero bisogno – e a cui pure ne dà un accenno, confermandone il bisogno, dimostrando di averlo compreso e persino di avere in nuce un desiderio di soddisfarlo. Personalmente, ci sono momenti in cui la richiesta di attenzione altrui mi risulta esasperante, sia pur senza che sia contemporaneamente impegnato in attività che non siano meno che futili. In questo non credo ci sia una differenza sostanziale con le donne – la differenza è che mi sento più legittimato della maggioranza di loro a dire di “no”. E quando la richiesta di attenzione può non cessare di fronte al nostro desiderio di allontanamento, mi sembra anche di riconoscere un’origine della violenza maschile, analoga alla presa di controllo e riconferma di potere di fronte a un “no” femminile (quale che sia), ma più specifica e legata appunto alla volontà di indipendenza e di libertà da vincoli di cura.

Più che una critica ad ogni individuale impegno e alla sua misura, quale che sia, la mia è una constatazione di una sorta di incapacità acquisita insieme al nostro genere, il prezzo dei nostri privilegi. La cura è un problema di eccesso (e di obbligo), una competenza che è dovuta a una gabbia, per le donne, e di difetto (e di privilegio), un delegare che è divenuto incapacità, per gli uomini. E lo stigma femminilizzante è senz’altro un guardiano del privilegio corrispondente a questa riluttanza maschile: “come quelle vecchiette che si inteneriscono per i gattini?” fu la reazione di un amico sapendo la mia attività animalista. Per motivi analoghi, credo ci sia un problema degli insegnanti uomini ad avvicinarsi al mondo delle scuole medie, per non dire dei livelli precedenti, in cui l’insegnamento si avvicina via via – inquietantemente per molti di noi – alla relazione di cura.

Riguardo la capacità di trovare in sé, ascoltare e dare voce a questi desideri di trasformazione, di cambiamento rispetto al modello dominante che non si prende cura che di se stesso, il mio personale problema è stato in passato quello dell’isolamento, di sentirmi “figlio unico” in questo percorso. Questo non è che un corollario dell’incapacità di individuare (o voler ammettere) la caratterizzazione di genere di certi disagi. Di fatto, fin da piccolo ho sempre sia subìto sia non voluto replicare un certo modo maschile di stare nel mondo che (anche con comportamenti che rientrano nella più pacata normalità accettata da chiunque, nei modi di scherzare e socializzare) è violento, aggressivo, machista, omofobo e misogino. Tra maschi però non si parla di questi disagi. Se non quando vediamo qualcun altro che ne parla. Gli uomini che non accettano tutto un certo sistema simbolico in genere se ne stanno in silenzio, diciamo che anziché prendere parola schivano i colpi dell’irreggimentazione patriarcale. Si sopporta quello che non ci piace di certi amici maschi o di certi ambienti maschili o misti – o talvolta si disertano. Si possono evitare frequentazioni femminili che ci rimandano il desiderio di un maschile virilista. Ma il silenzio non serve a molto; anzi c’è sempre il rischio di cadere in una sorta di narcisismo vittimista basato sulla propria superiore diversità. Per questo, a mio avviso, è importante per gli uomini darsi uno spazio – anche separatista – che invece raccolga questi disagi di fronte all’irreggimentazione e questi desideri di trasformazione e dia possibilità di esprimersi.

Eppure, lo spazio in cui gli uomini parlano tra loro di che cosa significhi essere uomini e si dedicano al tema del rapporto con le donne è tutt’altro che assente. I desideri degli uomini non sono nascosti. I maschi parlano ovunque di donne e di tutte le categorie che non rispondono al maschile eteronormativo: deridendole o esorcizzandone l’umanità. Esprimono pubblicamente i loro desideri come “utilizzatori finali” del bene di consumo femminile. Questi desideri non hanno bisogno di “liberarsi”, di trovare parola: sono già quelli dominanti – sono i desideri corrispondenti al modello attuale del neoliberismo patriarcale. Alcuni gruppi di uomini non si accontentano della misoginia che si respira ovunque ma, partendo proprio da un confronto tra di loro, da una condivisione e costruzione di alcuni propri desideri, giungono a esprimere in forma di rivendicazione perfino un rancore esplicito verso le donne.

Non si tratta dunque di trovare un luogo in cui dar voce ai desideri maschili attuali. Gli uomini dovrebbero invece costantemente analizzare quelli che si trovano a vivere, denudarli, metterli a confronto con i dettami più o meno espliciti della società da cui veniamo e di quella che costruiamo. Un dialogo tra uomini sul disagio e sui desideri maschili è dunque fondamentale, perché attraverso l’ascolto del desiderio di cambiamento degli altri uomini non si può non guardare dentro di noi anche quella riluttanza e quei desideri che portano, rispetto alla cura verso le relazioni, un grande numero di uomini alla presenza inefficente o all’assenza – se non alla presenza contro. Ma per mantenere una continua tensione positiva, tra l’esprimersi liberamente e il riconoscere il patriarcato da cui siamo attraversati, serve soprattutto un dialogo fittissimo con il femminismo, che del patriarcato ha smascherato l’invisibilità con un’urgenza di cui riconoscere la forza non dovrebbe spaventare noi uomini, ma esortarci a un dialogo in cui non assumere voci inautentiche, predisposte da stereotipi che ci ingabbiano.

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