Siamo sopravvissute: la prostituzione non è lavoro, è violenza patriarcale
di Chiara C.
Nella percezione comune e nella narrazione dei media (e a volte perfino in alcuni ambienti femministi) si tende a rappresentare la prostituzione come un fenomeno a sé stante rispetto al più ampio argomento “violenza maschile sulle donne”; la prostituzione resta ancora oggi il luogo dell’indicibile, quello di cui non si parla nelle famiglie, a scuola, soprattutto alle bambine che scoprono o capiscono che esistono queste donne che degli uomini comprano che si vedono agli angoli della strada o in TV, specialmente di notte e che sono esposte come carne da macello. E quello che tutti capiscono presto, bambini e bambine, è che queste donne sono disprezzate e disprezzabili. Non sono donne come le altre, sono diverse. Esiste una barriera che la società “normale” alza tra le persone civili, le donne rispettabili e queste donne non degne di rispetto, meno donne delle altre.
Ad una bambina si chiede subito di operare una dissociazione tra l’identificazione con il proprio corpo e sesso e quello delle altre: c’è la madre, la sorella, le amiche, le compagne di scuola, tutte le figure femminili familiari, e poi ci sono loro di cui nessuna parla perché scandaloso eppure anche loro hanno un corpo in tutto uguale eccetto il fatto che degli uomini le comprano e quindi restano degradate, usate, non più donne come le altre. Ad una bambina non sfugge la contraddizione dolorosa e ne soffre.
E soffrirà ancora di più perché quelle donne così lontane apparentemente dalla propria vita “protetta” nelle mura domestiche non sono poi così lontane e ogni bambina lo capisce quando presto o tardi la parola “puttana” arriverà ad invadere con violenza il proprio spazio vitale per cancellarla. Nessuna donna per questo motivo è al sicuro e per questo la prostituzione ci riguarda tutte. Quando ci chiamano puttane ci stanno ricordando che siamo come quelle donne isolate e disprezzate da tutti, che faremo la loro fine: essere oggetti per lo sfogo dei bisogni altrui a cui nessuno riconosce alcuna dignità di essere umano. La parola “puttana” viene usata come arma per controllarci, distruggere il nostro senso del sé, i confini inviolabili del nostro corpo, la nostra stessa esistenza. Per impedire che ci ribelliamo e pretendiamo diritti sui nostri corpi e le nostre vite. Perché impariamo a disprezzare le altre e ad auto-disprezzarci così che collaboriamo al lavoro di oppressione e invisibilizzazione messo in atto dal patriarcato.
La prostituzione non accade un giorno improvvisamente nella vita di una persona, noi come tante altre donne nel mondo che hanno preso parola possiamo testimoniarlo, ma è spesso l’ultimo atto di un processo innescato di violenza cui segue isolamento, silenzio, vergogna che il/i carnefice/i impongono alla persona abusata che spesso ha a disposizione un’unica risposta-reazione che è quella di auto-distruggersi, di cercare di eliminare in ogni modo la fonte del suo dolore: il suo corpo, il suo sesso.
Da bambine ci hanno chiamate “puttane”, hanno invaso, violato i nostri corpi per distruggerci, ci hanno fatto credere che era colpa nostra, che era il nostro sesso, il nostro essere nate donne a condannarci ad essere abusate. Allora non riuscivamo a capire, c’era solo un luogo buio dove ci rifugiavamo per scappare, c’era solo la voglia di non esistere più. Questo dolore ha aperto la porta alla ricerca di una qualche forma di morte, qualcosa che ci anestetizzasse per non sentire più male. Così qualcuna di noi ha incontrato un violento che si è nutrito del suo dolore, qualcuna ha iniziato ad autocurarsi con droga e alcol, altre con la prostituzione. Non erano neanche i soldi spesso il vero motore, ma il non pensare più, il non provare nulla. Se la società ci respingeva come “danneggiate” buone solo ad essere usate, allora dissociarci ci permetteva di esistere disconesse da tutto, prima di tutto da noi stesse. L’abuso porta ad altro abuso come in un cerchio che ritorna da dove sembra impossibile uscire.
Eppure è possibile uscire dalla violenza della prostituzione quando si riesce a spezzare l’isolamento e la vergogna, quando finalmente trovi una tua simile. Una donna come te, che ha provato il tuo stesso dolore, che ha nascosto come te le sue ferite a tutti, che cerca disperatamente di annullarsi, di dimenticarsi. Quella donna, quelle donne che incrociano la tua strada sono quelle che ti restituiscono vita e bellezza. Non devi più vergognarti dell’abuso che hai subito, adesso puoi liberarti e riprenderti la tua vita.
Il cerchio chiuso della violenza lascia spazio al cerchio aperto e vitale del riconoscersi tra donne che hanno deciso di combattere: la parola “sopravvissuta” racchiude tutto questo. È una parola che restituisce forza e controllo sulla propria vita, che denuncia e chiede giustizia, che non abbassa la testa. Che non si assume più il peso della colpa che spetta solo a chi il male l’ha fatto. Che combatte perché vuole un’umanità diversa, ed è disposta a mettersi in gioco per questo, perché nessun’altra bambina sia chiamata puttana, sia abusata e poi rivittimizzata e abusata ancora.
Il movimento internazionale delle sopravvissute è nato grazie a questo contagio vitale di donne che si riconoscono, che si scelgono nel riconoscimento di un legame che attraversa i corpi e la storia di un intero sesso, quello femminile, oppresso dalla violenza patriarcale da quando esiste il mondo.
Ma la voce di una sopravvissuta è una minaccia per l’ordine patriarcale costituito, darle ascolto significherebbe mettere fine a privilegi millenari come quello di poter comprare una donna, poter dividere le donne tra quelle da usare come corpo da riproduzione e quelle da usare come sfogo dei bisogni sessuali. Le madonne e le puttane.
Per questo la reazione del patriarcato a questa presa di parola è forte, è nuova violenza: tentativi di censura, rivittimizzazione e ogni genere di intimidazione purché questo movimento politico si fermi, nessuno tocchi lo status quo.
Julie Bindel ci racconta, in un estratto del suo libro “The pimping of prostitution”, come gruppi di sostenitori/sostenitrici dei diritti delle “sex workers” compiano veri e propri atti di bullismo ed ogni genere di violenza contro le sopravvissute che prendono parola contro l’industria del sesso, denunciando la violenza subita. Queste donne che devono comunque lottare quotidianamente contro i propri traumi causati dall’esperienza della prostituzione si trovano ad affrontare questa ennesima violenza: da quella psicologica come sminuire, umiliare, denigrare, distruggere emotivamente, minacciare fino ad arrivare, come è successo a Rachel Moran, fondatrice di SPACE International, a pubblicare i suoi dati bancari e il suo indirizzo di casa su twitter.
Quando Rachel è venuta invitata da noi a Roma per presentare il suo libro “Stupro a pagamento” ha subito lo stesso genere di trattamento violento da parte di chi ha tentato di censurarla in nome della difesa dell’industria del sesso. Ogni volta che una sopravvissuta in varie parti del mondo prende parola pubblicamente ecco che gruppi organizzati per i diritti delle “sex workers” (di cui fanno parte anche persone che non si trovano nella prostituzione come accademiche/ci, attiviste/i vari e anche sfruttatori/sfruttatrici come Alejandra Gil, la vice-presidente del Global Network of Sex Workers Project, condannata a 14 anni per tratta o Claudia Brizuela di AMMAR, Asociación de Mujeres Meretrices de la Argentina, condannata per tratta o Douglas Fox, membro dell’International Union of Sex Workers Projects e autore della bozza della policy sul sex work di Amnesty, che si definisce ‘sex worker’ ma è proprietario dell’agenzia di escort Christony Companions ecc.) tentano in ogni modo di censurarle.
Irrompono agli eventi cercando di metterle a tacere con modi intimidatori, distribuiscono volantini di propaganda a favore dell’industria del sesso, cercano di far cancellare eventi dove siano presenti sopravvissute, diffamano queste donne, diffondendo ogni genere di falsità sul loro conto: una costante è quella di dire che la donna che parla della sua esperienza nella prostituzione in realtà non è mai stata nell’industria del sesso, è un fake, un’attrice che si è inventata tutto per farci i soldi.
È successo a Rachel (per mettere fine alle calunnie è stato girato un documentario in cui un poliziotto rilascia la sua testimonianza, dicendo di aver arrestato Rachel quando si trovava in un bordello di Dublino a 16 anni), è successo ad Huscke Mau, sopravvissuta tedesca, ad Alice Glass, sopravvissuta australiana e tante altre.
Un’altra costante è quella di dare delle violente e prevaricatrici alle sopravvissute, come è stato scritto nel volantino distribuito a Roma mentre Rachel stava parlando della sua vita come adolescente senzatetto indotta dal suo fidanzato a prostituirsi, perché il suo/loro vissuto negherebbe l’esistenza di donne che si prostituiscono per scelta o addirittura il racconto della violenza che hanno subito metterebbe a rischio le altre, aumenterebbe lo stigma nei loro confronti.
Stiamo parlando di una donna che a causa di discriminazioni socio-economiche ha avuto come unica “scelta” per sopravvivere la prostituzione e di migliaia di altre donne che Rachel rappresenta tramite la sua associazione SPACE international, un’associazione che unisce una rete di sopravvissute attiviste che hanno dato inizio nei loro paesi a programmi di uscita, ad aiuti concreti per le donne che vogliono uscire dall’industria del sesso. Nei paesi regolamentaristi dove la prostituzione è considerata un “lavoro” come un altro non esiste alcun genere di aiuto per chi vuole uscire, come ci racconta Marie Merlinker, sopravvissuta tedesca, neppure l’assistenza psico-sanitaria; se hai sviluppato traumi, depressione, sindrome da stress post-traumatico sei abbandonata a te stessa.
Addirittura il racconto della violenza subita viene definito da chi ha attaccato con modi intimidatori Rachel “spettacolarizzazione della violenza di genere”: che cos’è questa dichiarazione se non una richiesta di censura? Non dovrebbe essere garantita a queste donne la libertà di parola? Da quando il femminismo, che ha fatto della presa di parola delle donne vittime della violenza patriarcale la sua forza, chiede invece la censura? Come si può chiamare “spettacolarizzazione” il racconto del proprio vissuto? È chiaro che questo tentativo di silenziare le sopravvissute ci parla di qualcosa d’altro: ci parla della volontà di mettere a tacere chi colpisce al cuore il business miliardario dell’industria del sesso che dietro la facciata ripulita, perbenista e anche finto-alto-borghese del “sex work” nasconde criminalità organizzata, sfruttamento diffuso, clienti sadici che uccidono o torturano. In Nuova Zelanda sono le stesse donne che si trovano nell’industria a dire che lo stigma non è assolutamente scomparso, ma anzi i clienti sono ancora più violenti, pretendono e disumanizzano le donne sempre di più. Dopo la depenalizzazione le donne hanno continuato a morire: Mellory, Suzie, Anna e Sky, questi solo alcuni dei loro nomi. In Svezia nessuna donna è stata uccisa dall’introduzione della legge abolizionista.
Come si concilia questo con la solidarietà che chi si trova in una posizione di privilegio dovrebbe avere nei confronti di donne sfruttate e ricattate? La tanto difesa distinzione tratta VS prostituzione volontaria non implicherebbe un riconoscimento politico anche per le vittime di tratta o per tutte le donne sfruttate sessualmente che prendono parola? Oppure quando le donne sfruttate rivendicano diritti diventano nemiche da diffamare e distruggere?
Lo stigma è frutto della violenza patriarcale che i clienti esercitano ogni volta che pagano per stuprare una donna. Come può lo stigma essere creato da una donna che ha vissuto e vive lo stigma sulla propria pelle?
Le calunnie, i ricatti, le minacce fanno parte di una tattica precisa che ha l’obiettivo di isolare e minare l’equilibrio psichico delle sopravvissute per costringerle di nuovo al silenzio, perché queste donne, come Rachel, sono portatrici di una verità scomoda: la violenza è endemica nella prostituzione, il consenso viene comprato in quello che è un vero e proprio stupro a pagamento, lo sfruttamento e le violenze di papponi e clienti sono la norma nell’industria del sesso.
Quelle di noi che hanno vissuto la prostituzione sanno bene che la violenza non si ferma una volta fuori, se osi denunciare che i soldi non giustificano, non normalizzano gli abusi. Una donna che è stata nella prostituzione non è la vittima perfetta da compatire, è casomai, secondo una visione misogina, una che ha approfittato dei cosiddetti “bisogni maschili” per farci i soldi. O un’imprenditrice emancipata, una lavoratrice (“sex worker”) autodeterminata che riesce, anche grazie alla prostituzione, a vivere una sessualità libera e trasgressiva.
Ma il nostro racconto è diverso: parla di abusi subiti da bambine e adolescenti, di distruzione e interiorizzazione dell’odio e del disprezzo subito che si trasforma in autodistruzione, di vergogna, di isolamento e stigma, di assenza di opportunità e vie d’uscita. L’industria del sesso è intrinsecamente misogina, si nutre e si espande grazie all’odio contro i corpi e la sessualità delle donne. Se la prostituzione fosse un lavoro come un altro non si troverebbero al suo interno donne abusate, donne che si anestetizzano con droghe ed alcol per resistere, donne che lottano contro povertà, razzismo ed emarginazione sociale.
La nostra voce dai margini si unisce alla voce di queste donne che si sono ribellate al sistema prostituente patriarcale che ci vuole sottomesse, schiave e mute. Nonostante tutti i tentativi di isolamento il movimento internazionale delle sopravvissute si sta espandendo e rafforzando in tutto il mondo e siamo felici e fiere di farne parte.